Articolo a cura di Renato Drusiani e Adolfo Spaziani, Senior Advisor Utilitalia.
In questi giorni si sono aperti i lavori della COP30 a Belem in Brasile. Fra gli obiettivi del Paese ospitante vi sarebbe l'intenzione/ambizione di incanalare la crisi climatica in un percorso di rinnovamento globale, principalmente basato su cooperazione e innovazione.
Non a caso uno degli slogan della presidenza brasiliana della COP30 è il "mutirão", termine derivato dalla cultura indigena che indica il lavoro comunitario per un obiettivo comune. Il Brasile invita così la comunità internazionale a collaborare in un "mutirão globale" contro il cambiamento climatico, basato su cooperazione, solidarietà e inclusione.
Non mancano tuttavia, come si vedrà, le contraddizioni interne ed esterne come ostacolo a questo obiettivo di transizione ecologica giusta e sostenibile. In ogni caso, in attesa delle conclusioni di questa Conferenza, prevista il 21 novembre prossimo, e delle reazioni che ne potranno derivare, possiamo già rilevare la scarsa enfasi che, a differenza di precedenti COP, la stampa internazionale (e nazionale) sta dedicando all'evento e di un malcelato-limitato interesse che suscita presso le Cancellerie dei Paesi che partecipano o meno a questo summit.
Per quanto riguarda il livello di partecipazione degli Stati all'evento, il confronto con gli anni appena trascorsi, alla luce anche delle accresciute tensioni sul piano internazionali, appare impietoso:
- 2023, COP28 Dubai: 165 Paesi, un livello molto alto di partecipazione;
- 2024, COP29 Baku: 80 Paesi, una significativa contrazione;
- 2025, COP30 Belem: 50-80 Paesi, partecipazione ancora più contenuta.
Al di là di aspetti logistico/organizzativi che potrebbero avere influito sulla qualità/quantità della partecipazione, come la limitata recettività e gli elevati costi di permanenza a Belem ben rilevati dalla stampa internazionale, concorrono significativi elementi di "raffreddamento" dell'interesse a partecipare, elementi che potrebbero condizionare il "potenziale" risultato della COP30:
Cambiamento significativo del contesto geopolitico e nuove priorità
Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca si caratterizza per una serie di ordini esecutivi, fra i quali spicca l'uscita dagli accordi di Parigi (2015) sulla riduzione dei gas serra. Questo introduce una forte dose di instabilità rendendo meno solide le basi di quello che potrà essere concordato/scritto sul documento finale di Belem.
Le politiche statunitensi ma anche di altri Paesi che supportano più o meno apertamente tali politiche non potranno che ridurre il livello di ambizione delle trattative, sia per mancanza di pressione interna che per il disimpegno su quote consistenti di finanziamenti internazionali.
Al tempo stesso l'emergere di un quadro complesso caratterizzato da conflitti sia militari che commerciali, sposta inevitabilmente l'attenzione e di conseguenza le risorse economiche, verso altre priorità, diverse dal climate change e dai suoi effetti. Ecco così che il tema della "sicurezza energetica", troppo affrettatamente accantonato in anni precedenti torna a riprendere la scena centrale.
Divario tra gli impegni assunti e la loro pratica implementazione
Anche se molti paesi presenteranno nuovi NDC (Nationally Determined Contributions), rimane comunque il problema di rendere i piani, soprattutto di decarbonizzazione, attuabili, ovvero di collegare le promesse con politiche concrete: finanza, tecnologie, meccanismi di controllo.
La COP può certamente dare impulso, ma la fase realizzativa si svolge su un terreno nazionale e quando anche sarebbe possibile poter contare, almeno in teoria, su "aggregati" multinazionali come nel caso della UE, divisioni interne di carattere politico-economico rallentano, nel migliore dei casi, i relativi processi decisionali.
Sostenere gli obiettivi ed anche la relativa roadmap finanziaria
Dagli esiti della COP29 era emersa l'ambizione di ampliare il finanziamento climatico globale fino a 1,3 trilioni di dollari l'anno, chiamata "Baku to Belém Roadmap to 1.3T".
Un punto centrale sarà come distribuire e vincolare questi fondi e a quali condizioni, con il rischio di innescare una rinnovata contrapposizione fra Paesi emergenti e Paesi sviluppati). Al tempo stesso occorre passare alla fase operativa sul tema dei Finanziamenti per adattamento, resilienza e compensazioni.
Questo tema ha creato tensioni tra paesi ricchi e paesi in via di sviluppo ed è stato fra i motivi della ritardata conclusione della precedente COP. Anche se è già previsto che le delegazioni dovranno pronunciarsi su vari rapporti relativi a strumenti finanziari esistenti (Green Climate Fund, Global Environmental Facility, Fondo loss & damage) è facile prevedere che potranno svilupparsi forti tensioni, alla luce anche delle limitate risorse disponibili e delle priorità economiche interne accentuate dalla guerra dei dazi scatenata dalla nuova Presidenza USA e dal rafforzamento della Difesa.
Temi ma anche contraddizioni della Presidenza Brasiliana
Il Brasile, in quanto paese ospitante, ha certamente interesse a enfatizzare la protezione della foresta amazzonica, sul suo territorio si colloca infatti il 60% della foresta amazzonica, un ecosistema ritenuto fondamentale per l'assorbimento di CO2 e la regolazione del clima globale. Si tratta di una tematica che potrebbe interessare altre Nazioni con ingenti patrimoni boschivi o che intendono intraprendere anche loro questa strada di valorizzazione del loro territorio.
In Brasile, tuttavia, quando si tratta di politiche climatiche e di sostenibilità ambientale le contraddizioni non mancano; a fronte di una riconosciuta biodiversità, la maggiore al mondo, si assiste infatti ad una deforestazione massiccia per favorire allevamenti e nuovi bacini minerari.
Al tempo stesso negli ultimi anni, pur con la contrarietà delle associazioni ambientaliste, è stato incentivato lo sfruttamento di risorse petrolifere offshore, in pieno contrasto con gli obiettivi climatici globali. Si aggiunga poi che l'applicazione delle leggi ambientali è spesso debole e le politiche governative possono variare velocemente, come è accaduto durante la presidenza Bolsonaro.
Considerato poi che l'economia del Paese dipende ancora massicciamente dall'estrazione di materie prime (petrolio, minerali ma anche soia e carne,), fattori questi che caratterizzano modelli di sviluppo poco sostenibili sul lungo termine, ben difficilmente ci si potrà attendere inversioni di marcia nei prossimi anni, anche se le parole del Presidente Lula, in apertura ai lavori della COP, alimentano qualche speranza.
Il rischio di una progressiva irrilevanza dello strumento delle COP
I fattori ora richiamati possono concorrere, chi più e chi meno a relegare in secondo piano il tema del cambiamento climatico. Questo aspetto, emerso già all'interno della stessa UE ove sta crescendo la tensione tra chi vorrebbe accelerare la transizione, chi teme di pagare un prezzo economico e sociale troppo alto e chi infine contesta, attraverso motivazioni tecniche, la razionalità stessa delle misure decise dall'Unione.
La decarbonizzazione del parco auto attraverso la sua elettrificazione e le contese tutt'altro che sopite che ne sono derivate sono un tangibile esempio di quello che sta succedendo, destinato ad amplificarsi nell'immediato futuro.
Il Green Deal, nel passato emblema di un'Europa unita, leader nella decarbonizzazione diventa così terreno di scontro anche politico tra che intende mantenere l'iniziale ambizione climatica e chi invece promuove un rallentamento più "realista" delle misure da adottare considerati i riflessi in termini di occupazione, salari e minore competitività sul piano internazionale. In questo quadro diventa difficile, a fronte di una Presidenza COP spesso orientata nel passato a proporre le misure più estreme, trovare dei ragionevoli compromessi.
In questo senso la Presidenza delle COP paga anche il fatto di avere confinato gli interventi di adattamento a un ruolo secondario, spingendo sugli di interventi di mitigazione, diretti invece alla riduzione della CO2 emessa. Alluvioni, siccità, incendi, ecc. quale che fosse la loro vera scaturigine, con tutti i danni e vittime provocati, non contribuiscono certo a convincere e sostenere la procrastinazione degli interventi di adattamento nell'attesa che gli interventi di decarbonizzazione manifestino un qualche effetto sul clima globale. Ne sono evidenti anche i riflessi politici da quelli nazionali sino ai più alti livelli delle Nazioni Unite.
Solo due COP fa nei documenti conclusivi si parlava di phase-out (ovvero fuoriuscita in tempi strettissimi dal ricorso a qualunque risorsa fossile, esplorazione inclusa), oggi invece chi si esponesse a sostenere una tale tesi verrebbe bollato nel migliore dei casi come ingenuo velleitarista. In sostanza se non si trova un ragionevole equilibrio nelle diverse filosofie e strategie di intervento, lo strumento COP è destinato a diventare poco più di una Esposizione Universale di nuove tecnologie, iniziativa pur sempre apprezzabile ma già svolta da altri e comunque priva del respiro necessario per orientare sia l'attuale che le future generazioni.
Il costante ma progressivo calo di interesse nei confronti delle COP registrato in questi ultimi anni cui si aggiunge il ruolo sempre più defilato dei Paesi maggiori emettitori di CO2, è un segnale che dovrebbe indurre a modificare l'approccio attuale.

